L’ IDEA della CROCE VERDE
una storia vera di 40 anni fa
ll mio babbo si chiamava Guido Morini
Ed ogni volta che parlo di lui, anche se sono passati tanti anni, gli occhi mi si riempiono di commozione. Ma se è vero che la morte, come ogni cosa, ha una sua logica, se è vero che nel destino di ognuno c’e una motivazione che va oltre la nostra miope visione di uomini, allora è anche vero che l’evento della sua scomparsa, cosi terribile, repentino ed inaspettato – quell’esperienza che avrebbe segnato tutta la mia vita di lì in poi – per qualche motivo era destino che accadesse, e si svolgesse esattamente così come è stato. La Sorte volle che incontrassi qualcuno che con impegno e con coraggio fosse capace di trasformare il dolore della perdita di una persona cara in uno stimolo a cercare una via nuova. Per il mio babbo non si era più in tempo, ma se la morte di un essere umano ha un senso, forse proprio la sua scomparsa fu il motore perché si creasse qualcosa di innovativo: un progetto concreto di solidarietà, affinché nessun altro si trovasse ad affrontare le sofferenze che mio padre ed io avevamo subito.
Si era nell’anno 1963. Nel mondo all’epoca si seguivano con apprensione i contrasti tra Kennedy (il quale sarebbe stato assassinato il 22 novembre dello stesso anno) e Krusciov. Si piangeva la scomparsa di Papa Giovanni XXIII; in Italia ci furono le elezioni politiche, a seguito delle quali, non senza difficoltà, fu presentato da parte di Moro il 5 novembre un governo di centro-sinistra. Il Vietnam si affacciava alle cronache mondiali; la chimica faceva passi da gigante.
Lamporecchio all’epoca era un comune in via di sviluppo; tuttavia ancora pochi possedevano l’automobile, e quasi nessuna casa aveva il telefono: in caso di necessità ci si recava alla cabina pubblica, presso quello che allora chiamavamo il “Bar dell’Appennino”, in Piazza Berni.
Era il 1963, il boom economico avrebbe presto cominciato a fare capolino… ma era meglio non aver bisogno di andare in ospedale.
Guido cominciò a star male alle 5 di mattina. Era il 21 di ottobre, e faceva freddo. Tutti in casa sobbalzammo al primo gemito; nessuna avvisaglia di dolore c’era stata fino allora, mai un malessere, a 59 anni quasi neanche un raffreddore. E adesso cosa succedeva? Tutt‘a un tratto crolla ogni sicurezza, il malato ha il respiro affannoso, e soffre così tanto che i suoi lamenti si sentono fino dalla strada; che fare? Si cerca di consolarlo, forse passerà. Nel frattempo si corre a cercare il dottore: bisogna andare a chiamarlo a casa, è ancora buio ma non si può aspettare giorno. La sveglia sul comodino segna lo scorrere interminabile dei minuti; chi è rimasto affianco al malato si figura uno per uno tutti i passi di chi invece è uscito: possibile che ci mettano così tanto? Nella feroce attesa non é permesso di cedere all’ansia. Si cerca di fare qualcosa di utile… così va meglio? Ma non va meglio. Ci si sforza di non piangere, si corre, si prega, si spera.
Ecco: il dottor Martini è alla porta; ha fatto più presto che poteva. In lui sono riposte tutte le speranze di una famiglia; a lui gli sguardi preoccupati di ognuno silenziosamente chiedono un responso. Gualtiero non perde la calma. Apre la pesante borsa di pelle che si porta sempre dietro, interroga il malato, lo ausculta, misura la pressione, conclude la visita. “E’ il cuore. Dobbiamo portarlo subito all’ospedale”.
Io la patente ce l’avevo, e anche una Prinz che mi serviva per andare a lavorare. Ma mio padre non poteva essere trasportato con quella, perchè gli spasmi del dolore non gli permettevano di stare seduto. Ci voleva un mezzo su cui potesse distendersi, e allora via, mentre i minuti ancora passavano, a cercare, e a chiedersi chi potesse averlo.
Lamporecchio è conosciuto in tutta la Toscana come il paese dei brigidini, e fu sul furgone di un brigidinaio, fra mille sobbalzi malamente attutiti da un materasso “ravversato” alla meglio, che il medico ed io accompagnammo il babbo al Pronto Soccorso di Fucecchio. Ma tutto fu inutile, giacché in ospedale, nel giro di un quarto d’ora, egli spirò.
Non dimenticherò mai quel viaggio disperato, gli scossoni, le curve, i lamenti di dolore del mio babbo.
Non dimenticherò mai le parole del cardiologo: “Se tuo padre fosse stato trasportato subito quì con un’ambulanza, molto probabilmente si sarebbe salvato”.
Si sarebbe salvato…
Che differenza!
Da una parte la morte, dall’altra la vita, separate da un “se”.
Si sarebbe salvato… tre parole che ti fanno diventare matto, che non ti fanno dormire, che ti rimbalzano nella mente mentre lavori, parli, mangi.
Si sarebbe salvato… subdoli strisciano il rammarico, l’amarezza, il rimpianto. Immancabilmente si ripercorre l’evento attimo per attimo, si scovano errori, ritardi, responsablità. Ci si chiede se si fosse fatto veramente tutto il possibile, se avremmo potuto agire meglio, e come. Quante difficili scelte in quelle ultime ore, quante variabili, quanti bivi! Quale sarà stata la scossa che ha creato il danno più grave? Sarebbe stato meglio guidare più piano? Ma allora ci avremmo impiegato più tempo. Qual é stato quindi il minuto esatto che ha decretato la fine? Quale I’attesa evitabile?
lnutile e doloroso logorarsi alla ricerca di responsabilità contingenti. Se da una parte stava la morte, e dall’altra la vita, e queste erano separate da un “se”, questo “se” era la disponibilità di un’ambulanza.
E nell’ottobre del 1963, nel paese di Lamporecchio, c’erano un teatro, una banca, un cinema, tre “autisti di piazza” (oggi li chiameremmo taxi), diversi esercizi commerciali, una biblioteca, tre bar, una farmacia. Ma un’ambulanza, nel paese di Lamporecchio, nell’ottobre del 1963, ancora non c’era.
Passò un giorno. Poi, per sbrigare alcune pratiche burocratiche connesse al lutto recente, dovetti recarmi in Comune. Passavano di lì per certi impegni l’ex sindaco Gettulio Cenci, e l’allora sindaco del paese Gettulio Calugi, i quali, avendomi riconosciuto, mi si approssimarono per farmi le condoglianze. Fu così che narrai loro del doloroso calvario della mattina precedente, del senso di smarrimento, delle parole del cardiologo. Io, che nella mia vita non mi sono mai rassegnato allo stato delle cose; non mi sono mai vergognato di quel senso di ribellione che mi nasceva dentro quando riscontravo che ad un problema palese nessuno si preoccupava di porre rimedio, “Possibile” – recriminai – “che in un comune con tanti abitanti quanti ne conta Lamporecchio, si debba morire cosi? Quante famiglie dovranno ancora affrontare le sofferenze che io e mio padre abbiamo patito?” Il Calugi, visibilmente commosso dalle mie parole, rimase per un po’ in silenzio. Chinò il capo, sembrò per un attimo perdersi nei suoi pensieri, fece due calcoli, alzò il suo sguardo sicuro, e lo fissò dritto nei miei occhi. “Rolando Morini, se ci impegniamo insieme, presto gli abitanti di Lamporecchio avranno la loro ambulanza”.
Ci demmo appuntamento in comune per la sera stessa. Tutto il nostro capitale consisteva in un mezzo notes a quadretti ed in un lapis consumato. Ma avevamo la forza della speranza, e su quel blocco cominciammo ad annotare i primi nomi.
Il dott. Gualtiero Martini, il dott. Apollo Porta, il prof. Enrico Cuturri, il parroco Don Elino furono i primi che aderirono alla nostra iniziativa, e con loro riuscimmo a rendere corresponsabili altri, tra cui Francesco Ferretti, Arquinto Rosselli, Sirio Fedi, Oliviero Tesi, per formare un primo consiglio che si riunì di lì a qualche settimana.
Il primo passo era fatto: avevamo le persone. Ora si trattava di cercare i fondi.
E fu così che partì un lavoro febbrile per coinvolgere gli abitanti del paese e delle frazioni vicine: si organizzarono riunioni in tutti i circoli: Borgano, Cerbaia, Papone, Fornello, Poggio Argentale solo per citarne alcuni. Ricordo che quando il sindaco Calugi parlava, tutti gli prestavano ascolto, e molti si rendevano disponibili a collaborare all’iniziativa.
Bussammo casa per casa, in ogni momento libero dal lavoro, tralasciando non senza sacrificio svaghi ed impegni familiari. Ad ogni porta passammo per domandare le 1000 lire della prima tessera sociale. Ed ad ogni persona che ci accoglieva illustravamo il nostro progetto, volto al bene di tutti. Ma non fu sempre facile. C’era chi ci conosceva e riponeva subito la sua fiducia in noi. C’era chi aveva vissuto esperienze analoghe alla mia ed era felice che finalmente qualcuno si muovesse. Qualcuno ricordava l’immediato dopoguerra, quando per andare in ospedale c’era a disposizione una vecchia jeep americana riadattata: allorché essa si guastò, nessuno si preoccupò di sostituirla. Ci furono poche famiglie più abbienti che lasciarono offerte superiori a quanto chiedevamo. Ma c’erano anche molti che non ci credevano, che non pensavano che riuscissimo, o che non avevano la disponibilità economica per elargire una somma che in molti casi corrispondeva al salario di un’intera giornata di lavoro. C’era chi non si faceva trovare. Così bussammo e ribussammo, in certi casi anche molte volte alle stesse porte, finché, con il sostegno di pressochè tutte le famiglie del comune, non si racimolarono fondi sufficienti all’acquisto della prima ambulanza: un’Alfa Romeo usata, adattata con un lettino dietro, che il concessionario Bacci ci rivendette con un forte sconto per 300.000 Iire.
Finalmente potevamo partire!
Erano i primi mesi del l964, e da quella fredda mattina di ottobre, dal giorno del mio primo incontro con Gettulio Calugi davanti al comune, erano passati meno di 6 mesi.
Ricordiamo che i primi a guidare l’ambulanza furono i tre “autisti di piazza” che prestavano servizio pubblico in paese e che per un modesto stipendio si suddivisero i turni; in seguito il servizio fu affidato ad un unico conducente, Tesi Oliviero, il quale manteneva permanentemente la custodia del mezzo presso la propria abitazione, non essendoci ancora una sede sociale attrezzata con posti auto al coperto. Ricordiamo l’impegno costante del segretario e tesoriere Francesco Ferretti, che da lì in poi dedicò all’associazione letteralmente la propria vita.
Ricordiamo le prime difficoltà di gestione, l’opera sempre necessaria di sensibilizzazione dei cittadini, le tante riunioni e, non senza soddisfazione, i tanti passi avanti che l’associazione da noi “inventata” ha fatto nel corso degli anni.
Da allora la Croce Verde di strada ne ha fatta tanta; nel 1966 si arrivò alla costituzione ufficiale della Croce Verde di Lamporecchio aderente all’A.N.P.A.S., con lo statuto sociale che permane tuttora. Con la collaborazione e l’aiuto dei tanti Consiglieri che sarebbe troppo lungo menzionare, si sono succeduti alla guida dell’Associazione. Il Dott. Gualtiero Martini, primo Presidente, il sig. Falciati Giovacchino, il Dott. Gualtiero Martini, secondo incaricato, il sig. Giovanni Setzu, ed il Cav. Aldo Bartoli, attuale Presidente. Adesso abbiamo diversi mezzi, una sede sociale, il bar soci, e tanti Volontari preparati si sono avvicendati nel corso degli anni. A loro va il più grande ringraziamento, perché con la loro opera hanno permesso e permettono oggi l’attività quotidiana dell’associazione. La Croce Verde svolge infatti ogni giorno molti servizi di emergenza, di trasporto ordinario, di valenza sociale, con l’attenzione costante ad ampliare e migliorare la qualità dei servizi erogati ai cittadini. Grazie alla gestione portata avanti nel corso degli anni, e con il sostegno di tutti i soci, molte vite sono state salvate, e molte ancora se ne salveranno.
Ma ricordare quei primi difficili giorni da pionieri è giusto, perché nessuno dia mai per scontato ciò che c’é e che prima non c’era, perché nessuno mai si senta chiamato fuori da un impegno che é di tutti e per tutti, perché noi non ci sentiamo mai arrivati; e non ci manchi mai il coraggio di riconoscere nei bisogni dell’altro i nostri bisogni ed i nostri problemi, né l’impegno per portare avanti soluzioni innovative.
Celebriamo oggi il quarantennale dell’ “idea” della Croce Verde, riunendoci tutti assieme, vecchi e nuovi Responsabili, Soci e Volontari, e nella memoria di Gettulio Calugi, che rappresenta la volontà di realizzare un progetto sentito, e di Francesco Ferretti, che rappresenta l’esempio di chi ha portato avanti l’associazione giorno per giorno come impegno di vita, vogliamo cogliere l’occasione per commemorare tutti quanti i volontari e le volontarie che prematuramente o naturalmente ci hanno lasciato nel corso di questi anni.
Dedichiamo a tutti loro la speranza che ci sia ancora tra noi qualcuno che non si accontenti, che non si rassegni, e che non aspetti passivamente che siano “altri” a fare il primo passo per porgerci già pronta una solidarietà che riteniamo dovuta.
I protagonisti delle nostre vite, con i nostri difetti ed il nostro cuore siamo noi, qui, adesso.
E’ cosi che è nata la Croce Verde, con l’impegno di pochi per soddisfare i bisogni di molti. Ed è cosi che con l’impegno di molte persone, che svolgono servizio di volontariato, il consiglio d’amministrazione vuole rinnovare l’impegno preso 40 anni fa, con i cittadini di Lamporecchio. Ma ha bisogno anche del aiuto. |